“Voci da Manus Island”, voce ai migranti senza voce
Behrouz e Omar sognavano l’Australia. Dall’Iran pareva un Eldorado di libertà, ma il loro viaggio si è fermato nel centro di detenzione per migranti in Papua Nuova Guinea.
Dalle loro voci, e grazie a un’animazione cupa e toccante, il racconto di un’Odissea senza ritorno.
Diretto e prodotto da Lukas Schrank Character Artwork di Luke Bicevskis Produttori esecutivi: Carly Bojadziski, Gilbert Caluya, Neil Holden, Peter Murphy, Kevin Roberts, Lucy Best Animazione dei personaggi in 2D: Lukas Schrank & Marisa Rossi Matte painter: Himashis Karmakar Animazione dei personaggi in 3D: Elmer Frihdson Ona & Melvin Riego Modellazionefaccia 3D: Edgar Marocsek Musica: Ian King Sound design e mixaggio sonoro: Nick Ryder / Bamboo Audio Colorista: Daniel Stonehouse / Crayon Consulente creativo: Peter Savieri Montatore: Chris Ward Fixer: Hossein Babaahmadi Copywriter: Emma Koster Ufficio stamp: Soraya Dean & Miguel Oyarbide Musica: “Gnossienne 1”, Erik Satie Adattamento: Escarlata Sánchez, Lena Roche, Nuno Prudêncio, Diego Giuliani & Jérôme Plan
Intervista
Lukas Schrank Direttore
“Non potevo andare a Manus Island, ma la storia doveva essere raccontata.”
Com’è nato il progetto?
Mi sono trasferito in Australia da Londra nel 2014. All’epoca, la questione della detenzione offshore e della migrazione veniva riportata dai media quasi ogni giorno e si era trovata coinvolta nelle elezioni federali.
Come straniero, non avevo mai sentito parlare della questione prima e mi sembrava strano che mancasse una voce nel dibattito, la voce delle persone più colpite.
Ho iniziato a fare qualche ricerca e ho trovato che c’era solo una intervista ai detenuti di Manus Island e non aveva raggiunto i media tradizionali, così ho iniziato a pensare a come avrei potuto usare le mie capacità per dare una voce a queste persone.
Com’è andata la produzione? Quali sono state le sfide da affrontare?
La sfida più grande è stata mettermi in contatto con i detenuti. Ci sono voluti circa 6 mesi per organizzare le interviste. Una volta ottenute le 3 ore di registrazione, la sfida più grande è stata montarle in una storia di 15 minuti, senza semplificare troppo la situazione estremamente complessa dei due uomini.
Come descriveresti il tuo stile, narrativo e vivido al tempo stesso?
Lo stile è stato definito in gran parte dai limiti. Il film doveva essere relativamente veloce ed economico da realizzare, su un supporto che può richiedere molto tempo ed essere molto costoso.
A parte questo, si trattava di catturare l’atmosfera del luogo, o quello che immaginavo che fosse, visto che non ci sono mai stato. Ho fatto molto affidamento su una piccola quantità di foto e videoclip per ricostruire il centro di detenzione in uno stile che volevo che fosse cinematografico e suggestivo.
In che modo l’animazione può essere uno strumento utile per la narrazione in un documentario?
L’animazione fa parte dei documentari fin da ‘L’affondamento del Lusitania’ (1918), che descrive l’affondamento di una nave passeggeri durante la Prima guerra mondiale. Non c’era alcuna registrazione visiva dell’evento reale, così l’animazione servì per dare vita alla storia.
Anche se è accaduto più di 100 anni fa, il ruolo dell’animazione nei documentari non è cambiato, infatti può essere un valido strumento per mostrare le parti di una storia che non possono essere altrimenti rappresentate e anche per raccontare una storia a un nuovo pubblico. Non potevo andare a Manus Island, ma la storia doveva essere raccontata.
Qual era il tuo punto di vista, quale messaggio volevi trasmettere con questa storia?
Volevo trasmettere l’impatto umano di una situazione altamente politicizzata. Penso che le persone diventino insensibili molto facilmente alle notizie, quindi volevo creare qualcosa che sovvertisse le aspettative delle persone e che raccontasse una storia familiare in modo diverso.
Se si mette una storia in un nuovo contesto, si rimuovono essenzialmente tutti i preconcetti e i pregiudizi del pubblico. Speravo che, coinvolgendo le persone a livello visivo, sarei stato in grado di raccontare una storia che aggirasse le loro convinzioni e conservasse quel livello di umanità che spesso viene meno quando si riportano i fatti.
Cosa diresti sull’impatto politico e sociale del film?
È difficile da quantificare, circa un anno dopo aver finito il film è iniziata la crisi migratoria in Europa e il film, sfortunatamente, è diventato all’improvviso di rilevanza globale. Sono sempre stato consapevole che non volevo solo ‘predicare ai convertiti’, così ero sempre felice quando qualcuno si metteva in contatto con me per dirmi che non aveva idea che la crisi detentiva offshore fosse in corso e che il film gli ha fatto aprire gli occhi.
Ero un po’ cinico su quanto di buono potesse arrivare dall’idea di ‘’sensibilizzare’’, così quando ho lanciato la campagna di crowdfunding per il film, ho promesso che il 20% del ricavato sarebbe servito per aiutare le persone a Manus Island e Nauru e che lo avrei donato a una serie di enti di beneficenza che avevano aiutato le persone a emigrare in Australia.
Sei ancora in contatto con i personaggi del film? Se sì, come stanno?
Sì. Per cinque anni, non è cambiato nulla nella loro situazione, ma verso la fine del 2019 le cose hanno iniziato all’improvviso a cambiare. Il primo uomo nel film, Behrouz Bouchani, ha pubblicato un libro, ‘No Friend but the Mountains’ e ha girato un film, ‘Chauka, Please Tell Us The Time’, che sono stati accolti entrambi incredibilmente bene. È rimasto bloccato su Manus fino all’ottobre del 2019 quando è riuscito ad andare in Nuova Zelanda. Da quanto ho capito, la sua situazione ora è appesa a un filo.
Qualche parola su 99 e la sottotitolazione multilingue del tuo film?
Il film all’improvviso è diventato di rilevanza globale, specialmente in Europa a causa della crisi migratoria. Senza 99, il film non avrebbe raggiunto un pubblico così ampio e variegato, attraverso la stampa internazionale, i festival cinematografici e internet.
È davvero l’obiettivo di un ogni film e, per questo, l’aiuto di 99 è stato prezioso.
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